Giorgia Protti, classe 1988, è un medico internista che ha lavorato per anni nella Medicina d’urgenza di un grande ospedale di Torino, la sua città. E che ha deciso di raccontare nel suo bellissimo libro d’esordio, La giusta distanza dal male, sotto forma di romanzo, il Pronto Soccorso dagli occhi di chi ci lavora e sacrifica vita e affetti. La giusta distanza è quel muro necessario, ai dottori e operatori del Ps, per non farsi annientare dal dolore altrui. Ma che talvolta rischia di allontanare anche dalle proprie, di emozioni. Un libro bellissimo, drammatico ma anche divertente, dove si intrecciano vita e morte, gioia e dolore. E che dovrebbero leggere tutti, per vedere gli ospedali e chi ci lavora, con occhi diversi.
Da dottoressa a scrittrice: da cosa è nata l’esigenza di scrivere questo libro?
Anche se ho scelto la formazione medica, scrivere è stata la mia passione fin da quando ero piccola, e in tutti questi anni ho continuato a coltivarla nel tempo libero. Questo romanzo è nato da un’urgenza, dalla necessità di imprimere su carta i pensieri nebulosi che mi affollavano la testa. È stata una vera e propria catarsi.
Quale istinto masochista spinge un dottore a scegliere la medicina interventistica?
Il Pronto Soccorso è un luogo senza pari: un caleidoscopio in cui si mescolano senza sosta situazioni sempre diverse, emozioni intense, rapporti umani immediatamente intimi. È un vortice che affascina e che, al contempo, rischia di risucchiare. Per un medico, lavorare in Pronto Soccorso è un’esperienza formativa unica, che insegna a gestire le urgenze più disparate. Ma è anche un’inesauribile fonte di crescita personale e di contatto umano, nel bene e nel male.
Il libro è totalmente autobiografico o solo in parte?
Si tratta di un romanzo di fantasia, non di un’autobiografia. Per raccontare la vicenda della protagonista ho dovuto attingere a un mondo che conoscevo bene, ma né i fatti né i personaggi ricalcano eventi o persone reali.
Perché inserire un elemento di sovrannaturale, Lucifero, nel racconto?
A dire il vero, Lucifero è nato da solo. Si è materializzato nella mia mente alla fine di un turno lavorativo particolarmente spossante, mentre uscivo a tarda sera nel parcheggio deserto dell’ospedale: me lo sono immaginato seduto a gambe incrociate sul cofano di un’auto. Quella scena era così suggestiva e potente che, una volta tornata a casa, ha richiesto di essere scritta. Da lì in avanti, Lucifero ha preso vita per conto proprio.
La disumanizzazione e il cinismo nei quali scivolano molti dottori del PS è più una forma difensiva di sopravvivenza o diretta conseguenza del contatto costante con la morte?
Credo che per molti operatori sanitari (non solo medici, ma tutte le figure professionali che lavorano a contatto con la sofferenza altrui) la difficoltà stia proprio nel gestire il dolore degli altri senza farsene annientare. Uno dei modi per tutelarsi è “anestetizzarsi”: costruire un muro di cinismo o indifferenza che mette distanza tra sé e gli altri. Il problema è che quel muro, paradossalmente, può creare distanza anche dalle proprie emozioni.
Come ci si abitua al dolore degli altri? (Se ci si abitua)
Non ci si abitua, per quanto mi riguarda. Si cercano modi per gestirlo senza scottarsi, ma anche senza allontanarsene troppo. Perché, per curare davvero, una certa quota di condivisione emozionale è necessaria. Il problema è quando l’empatia sconfina nell’immedesimazione.
Nel libro la protagonista divide i pazienti in categorie ben definite: le puoi riassumere per i nostri lettori? Magari si ritrovano in qualcuna…
La protagonista individua nei frequentatori notturni del Pronto Soccorso tre categorie di pazienti. I primi sono i cosiddetti “ignavi”, quelli che hanno un problema di salute non urgente ma vengono comunque in Pronto Soccorso di notte, nel momento di massima vulnerabilità del sistema ospedaliero, quando le risorse umane e strutturali sono ridotte. Poi ci sono i pazienti che stanno male davvero, e sui quali si riversano tutte le energie e le risorse disponibili. Infine, ci sono i pazienti che non saprebbero dove altro andare: quelli senza dimora, o con problemi di dipendenza, o con patologie psichiatriche, che all’imbrunire sentono ingigantirsi i mostri nella loro testa.
È vero che chi sta a contatto costante con la morte sviluppa anche un attaccamento più forte alla vita?
È vero. E non solo: essere costantemente a contatto con i drammi veri (la morte, il dolore fisico e psichico, le diagnosi irreversibili) permette di relativizzare i problemi minori, di identificarne il peso reale e di inserirli nel giusto contesto.
Tu sei riuscita a ritrovare, come cerca di fare la protagonista, la tua anima?
La mia anima, al momento, è piuttosto viva.
Il mondo del PS è paragonato ad un girone infernale da chi lo vive e da chi, da malato, ci è passato (penso a quel limbo del “boarding” dove si aspettano giorni, se non settimane, per andare in reparto). Qual è il reale problema alla base?
Non è notizia di oggi che il Servizio Sanitario Nazionale stia vivendo un periodo di crisi. La scarsità di risorse umane e tecniche, i lunghi tempi d’attesa, l’insufficienza di strutture sanitarie territoriali creano una reazione a catena nella quale il Pronto Soccorso, spesso, è solo l’anello finale.
Che reazioni ha suscitato il tuo libro? Hai ricevuto qualche commento da parte dei lettori che ti ha particolarmente colpita?
Ho ricevuto molti messaggi di condivisione e ringraziamento non solo da parte di operatori sanitari, ma anche di persone che svolgono lavori di tutt’altro genere, ma che si sono riconosciute nelle emozioni che ho cercato di descrivere nel libro. Sapere che si può essere così vicini anche a persone finora sconosciute e lontane è un’emozione insperata e impagabile.
Stai già pensando ad un nuovo romanzo? Se sì, ci puoi anticipare qualcosa?
Citando Eduardo De Filippo: “Essere superstiziosi è da ignoranti, ma non esserlo porta male”. Qualcosa bolle in pentola, ma, scaramanticamente, preferirei non anticipare nulla.