Aveva solo sedici anni Noemi quando il suo ex fidanzato decise di ucciderla, sì perché uccidere non è mai un caso, non si ammazza per sbaglio, non si inciampa in un omicidio. E, forse, questa frase andrebbe tatuata in tutte le aule di tribunale, quelle che spesso tendono a dimenticare chi siano le vittime di un femminicidio: non soltanto quelle ragazze a cui è stata strappata la vita, ma anche le famiglie di cui facevano parte e che non avranno più momenti da vivere insieme, quelle famiglie rimaste orfane e destinate all’ergastolo del dolore, quello dal quale non si guarisce, quello dal quale non riesce ad uscire. Perché il pensiero torna sempre lì, a quel banco vuoto, quella laurea mai presa, quel bambino mai avuto, torna sempre al momento in cui la vita ha smesso di essere tale, ed è diventata sopravvivenza.
Quelle famiglie che con dignità chiedono solo una cosa: giustizia. Non vendetta, ma solo sana e sacrosanta giustizia. Chiedono che chi ha commesso quell’omicidio sconti la pena, anche se nel caso della piccola Noemi non sembra nemmeno così giusta, visto che chi ha commesso il reato ha potuto usufruire anche del rito abbreviato riuscendo ad arrivare alla condanna di soli diciotto anni e otto mesi. Ecco immaginatevi di essere Imma Rizzo, la mamma di Noemi, e immaginate quello che deve aver provato scoprendo dai social che l’assassino di sua figlia, dopo soli tre anni dall’omicidio, aveva già iniziato ad usufruire di permessi premio durante i quali era stato trovato positivo sia all’alcol che alla cannabis, dopo aver forzato un posto di blocco ed aver provocato un incidente contromano alle 5 della mattina. L’omicida reo confesso ha iniziato a lavorare durante il giorno in un negozio, a dormire in un appartamento del suo titolare, ad andare allo stadio in curva, ai concerti, e pure a conoscere e frequentare una ragazza. Ho deciso per questo di dare voce a questa mamma distrutta due volte, per il dolore della perdita di sua figlia, e per l’ingiustizia che lei, e tutta la sua famiglia, stanno continuando a subire nel tempo.
Torniamo indietro, al giorno della scomparsa di Noemi, quando hai capito che non l’avresti più rivista?
Immediatamente. Una mamma purtroppo certe cose le percepisce. Quando Noemi scomparve, il 3 settembre del 2017, era di domenica. Mi ricordo di essere entrata nella sua stanza, di aver visto il suo telefonino e la sua borsa. Ho pensato subito che fosse successo qualcosa di grave, me lo sentivo e non me ne capacitavo. Era come se nella mia testa avessi la voce di mia figlia che mi ripeteva: mamma cercami, mamma aiutami, mamma salvami.
Era il 2017 e non è passato giorno in cui tu non ti sia battuta per la memoria e per far avere giustizia a tua figlia, ed invece cosa hai scoperto?
Sì, ho cercato in tutti i modi, fin dal primo giorno della notizia che mia figlia purtroppo non c’era più (il 13 di settembre del 2017, ndr), di battermi per la sua memoria. Ma quando l’anno scorso ho scoperto che tutte le mie battaglie per la dare la “giusta” giustizia che Noemi si merita non sono state ascoltate, lì è iniziato nuovamente il mio calvario, la mia condanna e il mio ergastolo. Perché sono solo io che vivo l’ergastolo e non l’omicida di mia figlia, quello che la vita gliel’ha tolta, e che invece di scontare la pena (che ricordiamo è stata di 18 anni e otto mesi con rito abbreviato, ndr) dopo tre anni di detenzione ha iniziato a usufruire di permessi premio come se fosse in vacanza.
Come hai saputo dei permessi premio all’assassino della tua bimba dopo solo tre anni?
L’ho scoperto attraverso i social, purtroppo, perché noi mamme, noi familiari, dopo la condanna definitiva non possiamo sapere nulla del condannato. Così, da sola, ho scoperto che l’assassino di mia figlia, durante uno dei permessi premio, non si era fermato all’alt delle forze dell’ordine, era scappato, contromano, a rischio di uccidere di nuovo qualcuno. E poi, quando ha sbattuto contro un muro e si è fermato, è stato inseguito dai carabinieri. E la cosa più brutta e sconcertante è che è stato trovato positivo all’alcol test. Ma dopo quest’episodio non c’è stato alcuno stop dei permessi, visto che successivamente l’omicida, perché quello è, è potuto andare allo stadio a tifare, è potuto uscire per fare shopping, per andare ad un convegno sul perdono. Lui che a noi familiari non ha mai chiesto scusa, è stato invitato ad un battesimo e, soprattutto, gli sono stati riconosciuti dei permessi per uscire, conoscere e frequentare una ragazza dopo solo pochi anni dall’assassinio di mia figlia, che vorrei ricordare essere stata uccisa in modo crudele.
Come mai in Italia in molti casi di femminicidio si cerca di recuperare l’omicida e non si pensa al recupero emotivo (e non solo) dei familiari delle vittime?
Perché l’Italia è uno stato garantista dove anche chi commette omicidi efferati, se minore, deve essere recuperato (ricordiamo che l’omicida è diventato maggiorenne tre mesi dopo l’assassinio, ndr), e chi permette che questo avvenga è mosso da una grande convinzione, la convinzione che tutti possano essere recuperati. Purtroppo non è sempre così e in casi come questo, io non ci credo. Non credo che chi toglie la vita in questo modo possa essere recuperato. Loro ci credono, ma si è visto il risultato, perché comunque il condannato non sta rispettando alcuna regola e i fatti mi stanno dando ragione. Ecco perché chiedo l’abolizione dei permessi premio per chi si macchia di reati così crudeli.
Qual è la tua paura più grande adesso?
La mia paura più grande è che io, insieme a tante altre mamme di vittime, non verremo ascoltate perché non vogliono capire che gli assassini devono rimanere in carcere, perché se tu togli la vita di qualcun altro, la tua, di vita, deve esistere solo in funzione dell’espiazione sì, ma in carcere. Non può vivere, come se nulla fosse, come se non avesse mai ucciso mia figlia. Perché io sogno di vederla rientrare da quella porta, la porta di casa sua, di poterla riabbracciare. E invece purtroppo non è così. Quindi lui deve pagare. Perché non è che ha rotto una bicicletta, un oggetto, che si può riaggiustare. Lui ha distrutto la vita di mia figlia, l’ha uccisa, io non la rivedrò mai più, ed è giusto che chi questo atroce delitto lo ha commesso paghi scontando in prigione la sentenza. Come vi sentireste voi a sapere che chi vi ha strappato una figlia, sangue del vostro sangue, una ragazzina che aveva solo sedici anni, dopo soli tre anni dall’omicidio, vada allo stadio a tifare? Lavori in un negozio di abbigliamento, dorma a casa del titolare e vada pure ai concerti? Come vi sentireste a sapere che, dopo solo tre anni, potreste ritrovarvi fianco a fianco con chi ha ucciso la vostra bambina? Io non chiedo vendetta. Voglio solo una “GIUSTA” giustizia per mia figlia.