Il delitto di Novi Ligure è una delle pagine di cronaca nera italiana più efferata e sconvolgente, per il modus operandi, 97 coltellate per uccidere, 40 per Susy Cassini di 41 anni anni e 57 per suo figlio, Gianluca di appena 12 anni, ma soprattutto per gli autori del delitto, Erika, figlia e sorella delle vittime, e Mauro Favaro detto Omar, il suo ragazzo, che di anni ne avevano 16 e 17.
È un giorno come tanti il 20 febbraio del 2001, ma dalle 19:30 di quella sera cambierà ogni cosa nella vita di Francesco De Nardo, direttore gentile dello stabilimento Pernigotti, un mondo fatto di caramelle e torrone, un uomo dolce che pensava di aver avuto tutto quello che poteva desiderare, una moglie che amava da quando avevano vent’anni, due figli, un bel lavoro e una bella casa. Il suo castello crollerà dopo 48 ore, quando i carabinieri di Novi Ligure arrestano sua figlia per l’omicidio della famiglia, lei che lui ha abbracciato forte quando credeva fosse l’unica superstite della mattanza ad opera di “mostri albanesi” di “zingari feroci” venuti da lontano, come la sedicenne aveva voluto far credere, con le mani e la coscienza ancora sporche di sangue, disegnando identikit dei presunti assassini con una freddezza che in caserma le valse in meno di 24 ore il soprannome “il ghiaccio”. Fece addirittura arrestare un ragazzo albanese riconosciuto da una foto segnaletica, che si salvò solo grazie a un alibi di ferro, perché nei due giorni antecedenti l’arresto di Erika e Omar, Novi si trasformò nella capitale dell’odio razziale.
Si riversarono persone in strada e davanti alla villetta chiedendo di impiccare gli stranieri colpevoli, quelli che rubavano il lavoro e uccidevano donne e bambini, per poi nel giro di 48 ore ricevere uno schiaffo ancora più forte, quello che Carlo Carlese, procuratore capo di Alessandria, aveva definito “uno degli episodi più feroci che abbia visto in vita mia”, non era opera della criminalità straniera, ma di due ragazzi italianissimi di sedici e diciassette anni. La ragazza è la figlia della donna uccisa e la sorella del bambino massacrato. Una storia che riporta alla mente il massacro compiuto nel 1975 dall’allora 18enne Doretta Graneris, che massacrò la sua famiglia.
Questa la ricostruzione nuda e cruda dei fatti avvenuti vent’anni fa. I due adolescenti vengono accompagnati nella villetta per un sopralluogo e per ricostruire la mattanza, lei sempre molto lucida, lui più timido chiamato “di supporto” alla povera ragazza scampata alla morte, al rientro in procura vengono lasciati cinque ore da soli in una stanza, sotto lo sguardo attento e vigile delle telecamere, ne uscirà fuori la ricostruzione del delitto.
Con un Omar preoccupato di essere scoperto e lei che lo rincuora, e poi ancora lei che mimando il gesto delle coltellate chiede “ma quante gliele hai date?” lui che alza lo sguardo complice e le sussurra “assassina” lei che ricambia con “no assassino tu”, scambiandosi effusioni sui corpi ancora caldi e martorizzati delle vittime, come se stessero vivendo un film, ma la realtà in questo caso supera di gran lungo la fantasia, lasciando solo tanto dolore, sconforto e sconcerto in tutti quelli che hanno seguito la vicenda, sperando fino all’ultimo in un epilogo diverso, perché la morte forse avrebbe fatto meno male.
Già perché è più facile odiare un estraneo cattivo brutto, un mostro, magari uno straniero, uno che non parla nemmeno la nostra lingua, è più semplice incolpare qualcuno che riteniamo lontano da noi, dalla nostra vita, dal nostro modo di essere e di pensare, ma quando il 23 febbraio 2001 vengono arrestati e condotti in carcere Erika e Omar è l’intero Paese a vacillare, è tutta l’Italia che rimane attonita di fronte a quelle immagini, due adolescenti, poco più che bambini, sono gli assassini della porta accanto, sono gli aguzzini che hanno affondato i coltelli per 97 volte, uccidendo una donna e suo figlio, madre e sorella della mente e della mano omicida.
Sono passati 120 mesi, 960 settimane, 7.300 giorni e Francesco De Nardo non ha mai abbandonato quella ragazzina, ormai diventata donna, disse che “era l’unica famiglia” a essergli rimasta, e una delle poche frasi da lui rilasciate mi ha scavato dentro: “Ci sono persone che si ammalano, magari hanno un tumore al cervello. Mia figlia si è ammalata in questo modo”. Solo che quella malattia si chiama omicidio.
E se come moglie posso arrivare a capire un uomo che perdona la figlia per avergli ucciso la compagna della vita, faccio fatica a essere empatica quando penso che sempre quella stessa persona abbia sgozzato e affogato suo fratello, sangue del suo sangue. Eppure il De Nardo non ha mai avuto un crollo, mai rilasciato interviste, appena hanno tolto i sigilli è tornato a vivere nella villetta degli orrori, come se due mani di vernice potessero cancellare il sangue versato. Lui che si è salvato dalla strage “solo” perché Omar era stanco di ammazzare, non ce la faceva più. Adesso il signor Francesco ha una nuova moglie, vive in un’altra casa, e tutte le domeniche pranza con Erika, che nel frattempo, è diventata sfacciatamente bella e donna dietro le sbarre.
A me l’unico dubbio che rimane è che si parli sempre meno di Susy e Gianluca, le vittime, che oggi avrebbero avuto 61 e 32 anni, la cui vita è stata spezzata per sempre in una villetta trasformata in un mattatoio, uccisi senza un motivo, senza nemmeno l’alibi o la scusa della droga, solo per avere più libertà, libertà che nel giro di pochi anni gli assassini sono riusciti ad ottenere. Come se scontando la pena si potesse dimenticare la ferocia del delitto. Ed io auguro loro di non dimenticare mai Susy che mentre veniva uccisa diceva “ti perdono” alla figlia e le parole di Gianluca che chiedeva solo di essere risparmiato. Come giusto mezzo di contrappasso per avere il privilegio di continuare a vivere.