Aveva solo 14 anni, Paolo Mendico, e un sorriso timido che nascondeva un peso troppo grande da portare. Si è tolto la vita l’11 settembre 2025, nella sua cameretta a Santi Cosma e Damiano, in provincia di Latina. Un gesto estremo che la famiglia, fin dal primo momento, aveva collegato ad anni di vessazioni, prese in giro e umiliazioni subite a scuola.
Oggi, dopo più di un mese di indagini e ispezioni, il Ministero dell’Istruzione ha confermato quello che i genitori avevano sempre sostenuto: Paolo è morto a causa del bullismo, e la scuola ha sminuito la gravità dei fatti.
Secondo la relazione ministeriale, gli ispettori hanno accertato che Paolo era stato vittima di insulti e derisioni da parte di alcuni compagni fin dalle elementari. Le segnalazioni della famiglia, più volte inviate alla scuola, non sarebbero state adeguatamente valutate. Gli insegnanti, si legge nel documento, “hanno sottostimato la portata delle condotte vessatorie, omettendo di attivare protocolli di intervento immediato”.
Dalle chat di gruppo e dai quaderni analizzati dagli inquirenti emergono episodi di bullismo verbale e psicologico ripetuti nel tempo: battute sul suo aspetto, prese in giro per i capelli lunghi, insulti legati al suo modo di essere “diverso”. A volte veniva chiamato “Paoletta”, a volte escluso dai giochi, spesso lasciato solo.
La Procura di Cassino ha aperto un fascicolo per istigazione al suicidio, mentre il Ministero ha avviato contestazioni disciplinari nei confronti di alcuni docenti. Si ipotizzano omissioni e mancata tutela dell’alunno, nonostante le ripetute richieste di aiuto dei genitori.
Oggi, la certezza è una sola: Paolo non è morto per un gesto improvviso, ma per una solitudine costruita giorno dopo giorno, tra il silenzio degli adulti e la crudeltà dei coetanei.
E pensare che, quando questa tragedia è esplosa, c’è stato chi ha difeso la scuola.
Chi ha detto che la dirigente aveva negato tutto, che bisognava “aspettare”, che forse la famiglia stava esagerando. Come se il dolore di un padre, di una madre, di un fratello potesse essere solo una questione di prospettiva. E invece no. La verità, ancora una volta, è arrivata tardi ma è arrivata: Paolo si è ucciso per bullismo. E la scuola ha sminuito la gravità dei fatti.
Cosa c’è di più grave di questo?
I provvedimenti arriveranno, certo, ma arrivano sempre dopo, dopo che un bambino ha smesso di respirare, dopo che una famiglia è rimasta sola a piangere, dopo che il silenzio ha fatto più danni delle parole. E mentre scorrevano fiumi di commenti sui social, c’è stato anche chi ha giudicato i genitori.
“Strani”, “diversi”, “vestiti in modo particolare”, come se l’amore avesse un codice estetico, come se un padre che pesca con il figlio, invece di comprare videogiochi, fosse meno genitore.
Il pregiudizio, ancora una volta, ha coperto la verità, e la verità è che Paolo non era strano, era solo sensibile.
Era un bambino curioso, autentico, che amava le cose semplici, e per questo è stato bullizzato.
Ma non vi fa impressione che stiamo parlando al passato di un ragazzino di 14 anni? Mentre io sono qui a scrivere, e voi vi state preparando per una nuova giornata, c’è chi non vedrà mai più il sorgere dell’alba, ma non vi fa male da morire questa cosa? Non vi scoppia il petto di dolore? A me sì, perché Paolo poteva essere mio figlio, poteva essere il figlio di tutti voi. Ha chiesto aiuto, ma non è stato creduto, il suo dolore sminuito, perché “signora mia, sono ragazzate.”
Il bullismo non è una ragazzata, è una violenza lenta e silenziosa, che si infiltra nei corridoi, nei gruppi chat, nelle risate cattive. E uccide.
Oggi il Ministero lo conferma, ma Paolo non tornerà, per questo dobbiamo dirlo forte: di bullismo si muore. E chi sceglie di minimizzare, di tacere o di girarsi dall’altra parte, diventa complice.
Perché il silenzio, nei casi come questo, è la forma più codarda di violenza.