Tutto ciò che la luce tocca, Janice Pariat: “Un viaggio nella natura verso la versione migliore di sé”

La scrittrice Janice Pariat ci racconta del suo romanzo "Tutto ciò che la luce tocca", dove le piante sono al centro di una storia appassionante

Pubblicato: 20 Settembre 2024 19:01

Federica Cislaghi

Royal e Lifestyle Specialist

Dopo il dottorato in filosofia, decide di fare della scrittura una professione. Si specializza così nel raccontare la cronaca rosa, i vizi e le virtù dei Reali, i segreti del mondo dello spettacolo e della televisione.

Janice Pariat è una delle scrittrici più premiate in India. Il suo romanzo, Tutto ciò che la luce tocca, edito da Salani, il premio AutHer Award 2023 e il Sushila Devi Award 2023, nonché del riconoscimento come miglior libro 2022 per il The New Yorker.

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Tutto ciò che la luce tocca è un romanzo in cui si intrecciano le storie di tre personaggi diversissimi tra loro, tra cui il grande poeta tedesco Goethe che pensava di ottenere la fama eterna non per le sue opere letterarie, ma per quelle scientifiche come, La metamorfosi delle piante, dove sviluppa l’idea della pianta originaria da cui tutte le altre discendono organicamente. Goethe ha trovato la Urpflanze, la pianta originaria, durante il suo viaggio in Italia, a Padova, una palma che è ancora custodita nell’orto botanico cittadino.

Nel romanzo di Janice Pariat si parla però anche di un’altra pianta speciale, il Diengiei, un albero leggendario, simbolo dell’unità.

Tutto ciò che la luce tocca è un libro da leggere, non solo se si è appassionati di botanica, ma anche per compiere un viaggio interiore alla ricerca della versione migliore del sé, come ci ha raccontato l’autrice, Janice Pariat.

Come è nata l’idea del tuo libro, Tutto ciò che la luce tocca?
Ho impiegato 10 anni a scrivere questo libro. Quindi è stato un processo molto lungo che è iniziato quando un giorno mi trovavo a Salisbury, nel Regno Unito, in un giardino bellissimo dove c’era una mostra sulle donne botaniste dell’epoca vittoria ed eduardiana che mi ha molto appassionato. Lì ho scoperto la vita di queste donne che per l’epoca era un po’ “indisciplinata”, viaggiavano, amavano raccogliere le piante, dipingevano… Insomma facevano una serie di cose considerate inusuali per le donne di quel periodo. Le loro vite mi hanno molto ispirato. Così, ho immaginato l’esistenza di una giovane botanista dell’Inghilterra edoardiana che intraprende un viaggio in nave fino all’India per cercare qualcosa. Ho scritto questo libro proprio per scoprire che cosa questa giovane donna stesse cercando in India. Il romanzo inizia infatti così.

Cosa hanno in comune i tre protagonisti del tuo romanzo, Shai, Evelyn e Goethe, così diversi tra loro?
Tutti i protagonisti hanno in comune un grande amore per la natura. Linneo e Goethe sono molto diversi e hanno visioni molto diverse, però condividono l’interesse per gli organismi naturali. I personaggi hanno in comune anche il fatto di muoversi, di essere in viaggio, non solo fisico ma anche interiore. Si chiedono chi sono, vogliono sapere qual è il loro posto nel mondo. Per esempio, Linneo non è un grande amante dei viaggi, però anche lui, come gli altri è alla ricerca di qualcosa. Il mio è un libro sulla fluidità, quindi i personaggi devono essere fluidi, devono muoversi.
Un altro aspetto che li accomuna è di essere lontani dalle loro famiglie biologiche, perché in realtà sono alla ricerca della loro famiglia, al di là dei legami di sangue, cioè sono alla ricerca di persone che li comprendano e sostengano. Tutti i miei protagonisti alla fine le trovano e in questa ricerca degli altri trovano anche se stessi.

Ci spieghi che cos’è il Diengiei e cosa simboleggia nel romanzo?
Tutti i personaggi del mio libro sono alla ricerca di una versione migliore e vera di se stessi. Questo proviene da un’idea che ha influenzato Goethe e che è stata elaborata da Spinoza, cioè tutte le persone sono mosse in un certo senso dal desiderio di essere una versione migliore di sé. È come se tutti gli individui si muovessero lungo una stessa traiettoria, spinti dal medesimo fine. Il Diengiei è un albero mitologico che simboleggia appunto la perfezione, un’idea che però non si realizza e concretizza mai. Perciò, questa pianta rimane mitica, perché non esiste nulla di perfetto e impeccabile. Ciò che è importante non è arrivare alla meta, quanto compiere questo viaggio alla ricerca di una versione migliore di sé. La pianta simboleggia la perfezione, l’unità.

Il Diengiei corrisponde alla pianta originaria di Goethe?
Nel libro c’è la contrapposizione tra la pianta originaria di Goethe e il Diengiei indiano, nel senso che quest’ultimo funge da ponte tra il poeta tedesco e la scienza indiana. Ma la pianta originaria di Goethe e il Diengiei si legano nel contrapporsi alla scienza occidentale.

Hai visitato gli orti botanici di Padova e Palermo che hanno ispirato Goethe?
Purtroppo non sono riuscita a visitare l’orto botanico di Padova. Avrei voluto tanto vedere la palma che ha ispirato Goethe, ma quando avevo pianificato di andarci, mentre mi trovavo a Roma nel marzo 2020, è scoppiato il Covid, c’è stato il lockdown e sono rimasta bloccata lì. Ho visitato però altri luoghi dove è stato Goethe, specialmente a Roma, e in un’altra occasione sono stata all’orto botanico di Palermo.

Sei un’appassionata di botanica?
Assolutamente sì. Ma avendo scelto un percorso umanistico, ho dovuto abbandonare lo studio della botanica. Però, durante la pandemia ho riscoperto il legame con la natura e con le piante, perché ho trascorso il lockdown in un appartamento con un piccolo giardino che è stata anche la mia fonte di sostentamento, mi ha nutrito. Mi sono presa cura delle piante e le piante si sono prese cura di me. In un certo senso è come se la natura fosse ritornata nella mia vita, proprio nel momento in cui stavo scrivendo il libro. C’è stata una sorta di relazione binaria, la natura è tornata da me e io ho riscoperto la natura. Ovviamente sono un giardiniere che sta ancora imparando a prendersi cura delle piante, ma quando ci si occupa di loro non si smette mai di imparare.

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