Ictus, cos’è, perché viene, come si riconosce e si cura

L'ictus è una patologia "tempo-dipendente": fondamentale è intervenire presto. I sintomi da non sottovalutare.

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Federico Mereta

Giornalista Scientifico

Laureato in medicina e Chirurgia ha da subito abbracciato la sfida della divulgazione scientifica: raccontare la scienza e la salute è la sua passione. Ha collaborato e ancora scrive per diverse testate, on e offline.

I neuroni hanno sempre bisogno di nutrimento. Questo arriva con il sangue. Quindi, quando le cellule nervosa hanno una carenza di sangue ed ossigeno con tempo possono morire. Questo è quanto si verifica in caso di ictus. la lesione, in qualche modo, è per il cervello quello che l’infarto è per il cuore. Possono esserci avvisaglie, con il nutrimento che torna come avviene in caso di angina, oppure il deficit di irrorazione si mantiene fino appunto alla morte di cellule cerebrali.

Arrivare presto è fondamentale, come ricordano gli esperti di ALICe (Associazione per la Lotta all’Ictus Cerebrale) Italia Odv. Per questo occorre ricordare quali sono i segnali d’allarme. Perché, non dimentichiamolo mai, “il tempo è cervello”.

I diversi tipi di ictus

Sotto la dicitura ictus si raccolgono situazioni estremamente diverse tra loro, che vanno riconosciute per approntare cure specifiche. La lesione può infatti essere causata in primo luogo dalla chiusura di un vaso arterioso e in questo caso si parla di ictus ischemico: più o meno le lesioni cerebrali hanno questa origine in quattro casi su cinque. Possono essere coinvolti tanto le grandi arterie, come ad esempio le carotidi, così come i piccoli condotti che scorrono all’interno del cranio e irrorano specifiche zone del cervello. A causare questo fenomeno possono essere trombi presenti sulla parete dei vasi o emboli trasportati dal flusso sanguigno.

L’ictus emorragico, invece si manifesta in circa il 15 per cento dei casi ed è legato alla rottura delle pareti di un’arteria che quindi perde sangue e va a comprimere il tessuto cerebrale. Tra le cause possono esserci un drastico aumento della pressione, che porta i vasi a rompersi, oppure la rottura di un aneurisma, cioè di una dilatazione patologica della parete arteriosa spesso nemmeno percepibili. Ci sono poi casi in cui si creano le cosiddette emorragie subaracnoidee, con il sangue che si accumula tra il cervello e il suo rivestimento esterno.

In questi casi, quasi sempre legati alla rottura di un aneurisma, ci sono segni abbastanza tipici come fastidio alla luce, un fortissimo mal di testa con vomito, in molti malati anche perdita di coscienza. Questa distinzione è estremamente utile non solo sotto l’aspetto scientifico, ma anche sul versante pratico visto che, in base all’origine della lesione, si procede con trattamenti specifici. Va comunque ricordato che, a prescindere dalla causa, quando un’arteria che irrora il cervello viene ostruita o  si rompe, in pochi secondi cala il flusso di sangue e nutrimento ai neuroni della zona normalmente irrorata da quel vaso.

In pochi minuti le cellule cerebrali iniziano a morire e il processo si diffonde rapidamente alle cellule vicine. Si formano quindi dei “cerchi” concentrici di cellule morte fin quando il danno vascolare non si arresta. Il problema è che non è possibile riprodurre i neuroni morti, e quindi la lesione cerebrale può lasciare segni sul cervello.

Perché è importante arrivare presto

“Time is brain”. Il tempo è cervello. Quando non arriva sangue ai neuroni, le cellule nervose, questi muoiono. E per quanto si possa fare con la riabilitazione, ciò che conta è arrivare il prima possibile con le cure, meglio se entro le prime tre-quattro ore dall’inizio dei sintomi. È questa la prima regola da tenere presente in caso di sintomi che possono far pensare ad un ictus. Arrivare presto in ospedale significa riconoscere le cause della carenza di sangue ad una determinata area del cervello, poter mettere in atto le cure più efficaci e monitorare la situazione al meglio, all’interno di strutture dedicate che si chiamano “Stroke Units”.

Come per il cuore dopo un infarto esistono le unità coronariche, così per il cervello ci sono queste sale in cui si seguono attimo per attimo la situazione generale e la salute degli organi principali. Il soccorso rapido è fondamentale. Essere assistiti prontamente, oltre a consentire di limitare i danni legati all’ischemia, significa essere seguiti in reparti altamente specializzati per l’inquadramento clinico-diagnostico-terapeutico e la miglior gestione della malattia, dalla fase acuta alla riabilitazione neuromotoria e cognitiva precoce fino alla prevenzione delle possibili complicanze.

Quali sono i segnali d’allarme

Gli esperti raccomandano di tenere presenti alcuni segni e sintomi che possono in qualche modo indicare il rischio che sia in corso un ictus. In queste circostanze occorre chiamare subito i soccorsi. I numeri d’emergenza 118-112 vanno immediatamente contatti in caso di comparsa improvvisa di:

– perdita di forza di un braccio, di una mano, di una gamba o di un piede.

– assenza di sensibilità e formicolii inspiegabili, soprattutto se interessa solo un lato del corpo.

– calo improvviso della vista, con visione annebbiata, soprattutto se interessa solamente una metà del campo visivo.

– difficoltà a parlare normalmente, perché non si trovano le parole o vi dicono che non riuscite a parlare bene.

Come si fa diagnosi di ictus

Il medico, ovviamente parte dai segni clinici e dai sintomi del soggetto per pensare ad un possibile ictus. Poi, soprattutto per comprendere l’origine della lesione, sono necessari esami specifici che consentano di “esplorare” quanto avviene nella circolazione cerebrale e nei vasi che portano il sangue verso l’alto.

In questo senso, se un tempo il cranio era una sorta di “scatola” chiusa, quasi inesplorabile, oggi diversi esami che consentono di studiare chi ha avuto un ictus e seguire la situazione nel tempo. In questo senso è molto importante la TC cerebrale: la tomografia computerizzata permette di “fare a fette” il cervello chiarendo se l’origine del problema è di natura ischemica o emorragica. Allo stesso modo anche la risonanza magnetica, che si basa sullo stimolo magnetico cui vengono sottoposte le cellule nell’esame, consente di valutare bene l’area colpita dal fenomeno.

Per il resto, sono molto utili anche esami che studiano le arterie, da quelli non invasivi, come l’eco- doppler dei vasi che irrorano il cervello (primo tra tutti le arterie carotidi) che permette di valutare la struttura delle pareti arteriosa e la circolazione del sangue, e l’angiografia, che grazie ad un mezzo di contrasto “colora” i vasi valutandone l’apertura. In questo senso si procede anche ad un’Angio-TC, che associa il test alla tomografia computerizzata. Infine, soprattutto per valutare la situazione funzionale del cervello, gli specialisti possono procedere ad una PET (Tomografia ad Emissione di Positroni) con impiego di un “tracciante” che segnala il “funzionamento” del cervello.

Cos’è il TIA (Attacco Ischemico Transitorio)

A volte l’ictus si manifesta senza alcun segno premonitore. Ma può accadere che il deficit circolatorio al cervello possa dare qualche leggero segnale, che magari non è stato riconosciuto. Capita quando si verifica un TIA, o attacco ischemico transitorio. Si tratta di un calo temporaneo nell’afflusso di sangue al cervello, sufficiente a determinare qualche sintomo ma non tanto prolungato da indurre la morte dei neuroni. Al termine dell’episodio ischemico, cioè quando si conclude il deficit di irrorazione, la persona torna perfettamente normale. Questo segnale d’allarme, che si può manifestare in diversi modi (ad esempio con una perdita di coscienza oppure con un calo improvviso della vista) è estremamente importante. Basti pensare che una persona su tre tra quelle che hanno avuto un TIA è destinata ad andare incontro ad un vero e proprio ictus, che in un caso su cinque compare entro un anno. Riconoscere il TIA, quindi, è fondamentale perché consente di diagnosticare l’eventuale lesione alle carotidi o altre arterie e quindi si mettere in atto una prevenzione, sia attraverso un intervento chirurgico sia attraverso farmaci che mantengano diluito il sangue.

Le cure immediate dell’ictus

Una volta in ospedale e ricoverata nella stroke-unit, la persona colpita da ictus viene sottoposta a trattamenti che hanno fondamentalmente due obiettivi. Ridurre la zona del cervello che viene alterata dalla carenza di sangue e combattere l’edema, cioè il rigonfiamento con presenza di liquido che si verifica all’interno del cervello stesso. Nel primo caso le cure puntano da un lato ad abbassare le richieste dei neuroni con farmaci che riducono l’attività delle cellule cerebrali, dall’altro a migliorare il flusso di sangue nella zona interessata.

In ogni caso, i trattamenti variano in base al meccanismo che ha determinato la lesione. Se esistono manifestazioni emorragiche, esistono tutta una serie di indicazioni rivolte al contenimento dell’estensione del sanguinamento e si punta allo sviluppo di veri e propri approcci di terapia specifica.

Per la forma ischemica sono invece disponibili già da tempo farmaci fibrinolitici che permettono la dissoluzione del materiale ostruttivo a livello arterioso, favorendo il ripristino rapido della circolazione in modo da limitare i danni al tessuto cerebrale. L’efficacia di questo approccio, e più in generale delle cure, è legata al tempo che passa tra l’inizio dei sintomi e la terapia. In pratica si ripete quanto si fa dopo un infarto per le coronarie, le arterie che portano il sangue al cuore. Come in queste il coagulo che blocca il sangue viene sciolto da speciali farmaci capaci di scioglierlo, i trombolitici, lo stesso potrebbe avvenire anche per i vasi del cervello.

La somministrazione dei trombolitici fornisce vantaggi quando viene effettuata rapidamente dall’inizio dei sintomi. Oltre alla trombolisi, cioè allo scioglimento farmacologico del coagulo che ostruisce un vaso, si procede sempre più spesso a trattamenti simili a quelli che si impiegano per dilatare e liberare le arterie coronariche che portano sangue al cuore. Infatti in alcuni casi, la terapia farmacologica può essere associata o sostituita dai trattamenti “endovascolari”. In queste situazioni si lavora attraverso un catetere inserito nell’arteria femorale, si risale fino al cervello e nella zona in cui è presente l’ostruzione vengono aperti dei tubicini metallici (stent) in modo da ricostituire un passaggio per il flusso sanguigno.  In certe condizioni è anche possibile procedere alla trombectomia, ovvero all’asportazione del coagulo che ostruisce il passaggio del sangue.

Chi corre maggiori rischi

I numeri sono chiari. L’ictus è più frequente dopo i 55 anni, la sua prevalenza raddoppia successivamente ad ogni decade. il 75% degli ictus si verifica nelle persone con più di 65 anni. La prevalenza di ictus nelle persone di età 65-84 anni è del 6,5%. Ma questo non significa che gli episodi non si manifestino anche in persone più giovani.  Infatti, pur se l’età avanzata rappresenti il principale fattore di rischio non modificabile, la patologia può presentarsi a qualsiasi età, anche quindi nei giovani. In questo caso, come detto sopra, il rischio è legato alla presenza di condizioni predisponenti specifiche.

Purtroppo, le fasce di età più giovanili tendono ad essere sempre più spesso colpite in relazione alla crescente diffusione di condizioni come l’obesità, l’uso di sostanze di abuso, il fumo di sigaretta. Rimane il problema, spesso sottostimato di condizioni come l’ipertensione arteriosa, il diabete (fattori di rischio sia per l’ischemia che per l’emorragia) e la dislipidemia, per non parlare di situazioni come la sedentarietà, i disturbi del sonno e altre problematiche per altro ampiamente diffuse anche nei giovani.

Il sensibile aumento di casi di ictus in soggetti di età inferiore ai 45 anni che si è verificato negli ultimi anni nel nostro paese, è da attribuire anche alla maggior diffusione di alcol e droghe. L’insorgenza di ictus nei giovani adulti si associa a un tasso maggiore di mortalità e a un aumento di disabilità permanente, che risulta più grave anche in ragione della più lunga aspettativa di vita.

Come si previene l’ictus

I fattori di rischio per l’ictus sono molto simili a quelli che mettono in pericolo il cuore.  In considerazione dei dati epidemiologici relativi all’impatto dell’ictus nelle diverse età, è chiaro che la prevenzione deve rappresentare un obiettivo fondamentale che va perseguito sin dall’età giovanile. Arrivare all’età adulta, quando il rischio aumenta sensibilmente, in buone condizioni fisiche, rappresenta un elemento fondamentale.

Come ha recentemente spiegato Mauro Silvestrini, Direttore della Clinica Neurologica del Dipartimento di Neuroscienze, dell’Azienda Ospedaliero Universitaria delle Marche, “sin dalla giovane età va posta una particolare attenzione ad uno stile di vita adeguato che dia spazio ad una attività fisica costante che significa utilizzare tutte le possibilità disponibili come passeggiare, evitare l’uso dell’ascensore o, quando possibile, ridurre l’uso dell’auto privilegiando altri mezzi di trasporto come la bicicletta.

Questo tipo di atteggiamento contrasta il sovrappeso, l’ipertensione, il diabete e l’ipercolesterolemia che rappresentano, insieme al fumo di sigaretta, i fattori di rischio maggiori per le patologie vascolari. Accanto all’attività fisica, l’ictus cerebrale si può prevenire anche mangiando in maniera equilibrata e curando il riposo notturno. È fondamentale poi sottoporsi periodicamente a controlli medici, tanto più importanti, quanto più si invecchia”.

In generale, non si può settorializzare l’approccio alla prevenzione in relazione all’età, ma è chiaro che, mentre in un soggetto sano fino all’età di 50-55 anni valgono soprattutto le norme di aderenza ad un corretto stile di vita con la necessità di controlli medici periodici e modulabili in relazione alla presenza di condizioni patologiche come l’ipertensione o il diabete, in un soggetto anziano l’attenzione deve aumentare. “Il semplice invecchiamento delle strutture vascolari è di per sé un fattore di rischio per l’occlusione o la rottura di un vaso e quindi, a maggior ragione i controlli medici vanno effettuati con più regolarità allo scopo di tenere sotto controllo tutte le condizioni mediche predisponenti – fa notare l’esperto. Ovviamente, per gli stessi motivi, un adeguato stile di vita rimane fondamentale”

Cosa fare dopo un ictus

I trattamenti, oltre a favorire il recupero e la riabilitazione delle aree eventualmente interessate dal danno, mirano soprattutto a limitare i rischi di un nuovo episodio. È fondamentale evitare una recidiva. Il trattamento di tutte le condizioni di cui si è parlato prima e definite come fattori di rischio, deve rappresentare una assoluta priorità che richiede una stretta collaborazione tra i medici e i pazienti.

Nel caso dell’ictus ischemico, in relazione alla condizione che ha presumibilmente causato il problema, esiste l’indicazione all’uso di farmaci come gli antiaggreganti piastrinici e gli anticoagulanti, in grado di migliorare il flusso e ridurre il rischio di occlusioni dei vasi sanguigni. Come detto, la riabilitazione delle funzioni compromesse dalla lesione ischemica o emorragica è un altro capitolo di grande importanza. L’approccio riabilitativo deve essere pianificato sin dalle fasi iniziali della malattia e accompagnare il paziente fino a che ci sarà un margine di miglioramento con l’ausilio anche di farmaci in grado di gestire le possibili complicanze dei deficit, ad esempio la spasticità che spesso si associa ad un deficit motorio.

Fonti bibliografiche

A.L.i.Ce

Ictus, Ministero della Salute

Conoscere l’ictus