Coronavirus, Covid ma non solo: cosa sono, che sintomi danno, come si affrontano

Dal Covid all'influenza del cammello: cosa sono i coronavirus, come mutano, quali malattie portano e le cure che abbiamo a disposizione

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Federico Mereta

Giornalista Scientifico

Laureato in medicina e Chirurgia ha da subito abbracciato la sfida della divulgazione scientifica: raccontare la scienza e la salute è la sua passione. Ha collaborato e ancora scrive per diverse testate, on e offline.

Fino a qualche tempo fa, quando si parlava di coronavirus, il pensiero correva subito al raffreddore. In genere, infatti, questi ceppi virali erano responsabili di manifestazioni leggere di infezione delle prime vie respiratorie, con naso che cola, starnuti a ripetizione, occhi rossi, al massimo qualche linea di febbre.

Tra le caratteristiche dei coronavirus, estremamente comuni peraltro, c’è la capacità di infettare specificamente le cellule delle vie respiratorie e replicarsi al loro interno. Perché si chiamano coronavirus? Il loro nome deriva dal classico rivestimento esterno presenta sulla loro superficie.

I coronavirus possono dare infezioni serie

Se in genere i classici coronavirus responsabili del raffreddore vengono tenuti sotto controllo dal corpo entro pochi giorni, purtroppo ci sono casi in cui questi virus possono determinare quadri ben più seri, anche perché possono modificarsi adattandosi all’essere umano. Questo è avvenuto ad esempio per la MERS (Middle East Respiratory Sindrome). Il coronavirus responsabile dell’infezione, che potrebbe essere partito dai pipistrelli della frutta per giungere poi all’uomo attraverso cammelli e dromedari, ha portato in chi ha sviluppato il quadro pesanti disturbi a carico delle vie respiratorie con tosse, febbre e dispnea, ovvero significativa difficoltà respiratorie. Ma non si è trattato certo della prima manifestazione di un coronavirus “figlio” del passaggio da animale ad uomo.

Qualche anno prima c’era stata la SARS (Severe Acute Respiratory Syndrome), cioè sindrome respiratoria acuta severa. Questi quadri spiegano perché i coronavirus erano tenuti sotto controllo quali possibili responsabili di una pandemia. In oltre 15 anni, tra i virus che sono riusciti a fare il “salto di specie” e ad attaccare l’uomo, al punto di trasmettersi direttamente da un essere umano all’altro, ben tre su cinque sono stati coronavirus.

L’ultimo, in ordine di tempo, abbiamo imparato a conoscerlo a nostre spese. È il virus Sars-CoV-2 con le sue tante varianti successive: il primo, comunque, ha iniziato a diffondersi in Cina a Wuhan. Ed ha determinato la pandemia che stiamo ancora affrontando.

Quali sono i sintomi dell’infezione da coronavirus

Nonostante i mutamenti verificatisi nel tempo con la comparsa delle varianti del virus Sars-CoV-2, ed in particolare con i diversi ceppi di Omicron, il coronavirus responsabile di Covid mantiene le sue caratteristiche che lo portano a prediligere le cellule dell’apparato respiratorio. In questo senso, quindi, a prescindere dalla gravità del singolo caso (a volte si è visto che possono esserci persone che contraggono l’infezione e rimangono del tutto asintomatiche), il quadro clinico ricorda quello della sindrome influenzale.  I sintomi sono soprattutto febbre, tosse, difficoltà respiratorie. Ma non basta.

A carico dell’apparato respiratorio, soprattutto con i primi virus mutati, l’infezione poteva indurre una risposta particolarmente significativa di tipo infiammatorio. Questo comporta la possibilità (oggi molto più ridotta rispetto alle prime osservazioni degli anni scorsi) di comparsa di insufficienza respiratoria acuta grave e di altri sintomi legati all’infiammazione ed alla risposta anomala dell’organismo nei confronti del virus.

Perché l’infiammazione può essere pericolosa

La risposta infiammatoria dell’organismo rappresenta ovviamente una componente dei meccanismi di difesa in caso di infezione virale. Grazie all’infiammazione, infatti, si accentuano le possibilità da parte del sistema immunitario di contrastare la replicazione virale. Ma, soprattutto con il virus di Wuhan e con le prime varianti di Sars-CoV-2, si è visto che il coronavirus responsabile di Covid-19 può scatenare una risposta infiammatoria particolarmente sostenuta.

La polmonite in queste circostanze tenda ad allargarsi ad una quota ampia del tessuto polmonare (in particolare dove avvengono gli scambia di ossigeno ed anidride carbonica perché il sangue si “incontra” con l’aria, ovvero negli alveoli). Ma non basta: anche sul fronte dell’apparato circolatorio il virus può influire direttamente sul benessere del cuore e delle arterie, oltre ad indurre una serie di reazioni infiammatorie che aumentano il rischio di infarti ed ictus.

Anche per questo occorre prestare attenzione in alcuni soggetti, che vengono definiti a rischio e vanno preservati più possibile dal rischio di infezione: è il caso degli anziani così come di chi soffre di patologie croniche o è a rischio cardiovascolare elevato. Si tratta solo di esempi che spiegano come e perché le strategie di protezione nei confronti del virus che provoca Covid siano fondamentali per limitare i rischi per il singolo e per la comunità.

Quanto servono le misure igieniche per prevenire l’infezione da coronavirus

Il coronavirus virus entra nell’organismo soprattutto attraverso le vie respiratorie e gli occhi, per questo è fondamentale prestare particolare attenzione all’igiene. Occorre sempre tenere presenti le norme di prevenzione, come del resto si fa (o si dovrebbe fare) con qualsiasi tipo di infezione che si trasmette per via respiratoria.

Il che significa lavarsi spesso, e con cura, le mani, utilizzando acqua e sapone o soluzioni alcoliche e utilizzare fazzoletti monouso per soffiarsi il naso curando di controllare eventuali starnuti o colpi di tosse. La trasmissione, a prescindere dai dati sulla permanenza del virus all’esterno, avviene per contatto stretto, in particolare negli ambienti chiusi. Le mascherine possono risultare utili per proteggersi e per proteggere gli altri, quando si utilizzano le FFP2.

Perché il coronavirus varia

Sono migliaia le piccole o grandi “mutazioni” che caratterizzano il percorso evolutivo del virus Sars-CoV-2 e che mettono in ansia gli esperti di tutto il mondo. Non si tratta di un processo nuovo. I virus, infatti, tendono ad “adattarsi” all’ospite e se intervengono fattori esterni come appunto un vaccino, possono anche “cambiarsi” in piccole parti. L’importante è monitorare la situazione e vedere se e come il virus sta cambiando, ricordando che quanto più la vaccinazione su larga scala è rapida, tanto minore può essere il rischio di questa possibilità.  Il virus Sars-CoV-2 non è più il medesimo che ha dato il via all’epidemia un anno fa.

Quanto più la popolazione (purtroppo) diventa immune al ceppo circolante, infatti, tanto maggiori sono le necessità per il virus di “modificarsi” per un meccanismo di “autopreservazione”: il virus insomma tenta come può di sfuggire ai sistemi di difesa dell’organismo.

E come si verifica questo fenomeno? O perché ci sono tanti casi d’infezione in una determinata popolazione, che quindi diventa immune avendo contratto l’infezione naturale, o perché con la vaccinazione si sono raggiunte molte persone. Non è quindi un caso, in questo senso, che le varianti più temibili abbiano preso il nome di aree in cui ci sono stati moltissimi casi d’infezione da Sars-CoV-2.

Le varianti del coronavirus

Nei primi periodi della pandemia sono comparse ad esempio la variante Brasiliana, o del Regno Unito, definita “inglese. La prima, ad esempio, è stata per la prima volta segnalata dal Giappone: presenta specifiche mutazioni – 11 per l’esattezza, sulla proteina Spike (quella che caratterizza gli “spunzoni” che appaiono sulla superficie del virus e verso la quale si producono gli anticorpi in seguito a vaccinazione).

La variante inglese è apparsa in grado di essere maggiormente trasmissibile rispetto ai ceppi originali e ci sono evidenze, per ora non definitive, che sarebbe anche più “cattiva” in termini di gravità. Ma in questo percorso a ritroso nel tempo stiamo parlando di situazioni che si sono presentate diversi mesi fa. Oggi appare soltanto un ricordo il primo virus Sars-CoV-2 isolato a Wuhan, in Cina. Tante, nel frattempo, sono state le varianti virali che si sono presentate nel tempo, in un percorso caratterizzato da un sostanziale aumento della capacità di diffusione del virus ma anche da un mutamento nelle manifestazioni cliniche ad esso collegate.

Pensate solamente ad ageusia e anosmia, ovvero perdita di gusto ed olfatto: all’inizio della pandemia erano praticamente segni classici dell’infezione, oggi sono rarissimi. Insomma: oggi i virus appaiono diversi, ma questo non significa che si debba abbassare la guardia e che si debba rinunciare al percorso vaccinale, con i richiami consigliati dal medico caso per caso.  Soprattutto occorre capire come le sottovarianti che si manifestano potranno impattare in futuro. Ed allora, pur ricordando che quanto sta avvenendo è di estrema complessità e che le conoscenze sono destinate ad aumentare, proviamo a fare il punto sulla situazione.

Omicron 5, la variante dominante

Ormai molti dei casi di infezione che si osservano sono legati ad Omicron 5 che ha ormai preso il posto di chi l’ha preceduta. Come mai? In primo luogo, stando a quanto si sa fino ad ora, sul fronte evolutivo Omicron 5 è particolarmente “competitiva” rispetto alle varianti circolanti e quindi può tendere a prendere spazio in particolare rispetto agli altri tipi di Omicron circolanti.

Oltretutto Omicron 5 risulta anche più trasmissibile e quindi potenzialmente più contagiosa, con una maggior facilità di “attecchire” nell’organismo umano. Questo aspetto sarebbe legato alle mutazioni che caratterizzano quest’ultima variante: ci sarebbero due invisibili “variazionI” nel patrimonio genetico del virus che possono rendere più semplice ed efficace l’attecchimento alle cellule dell’uomo.

Sempre in termini di mutazioni specifiche di Omicron 5, c’è un altro aspetto che preoccupa. Una specifica mutazione presente nel corredo genetico di Omicron 5 potrebbe essere all’origine di mutamenti significativi nella struttura della proteina che il virus impiega per aderire alle cellule umane. In questo modo, la possibilità di determinare infezioni da parte di Omicron 5 sarebbe più elevata e così si spiega la maggior diffusibilità dell’infezione determinata da questa sottovariante.

Cerberus e Gryphon sostituiscono Omicron?

Di certo c’è che i sintomi, sempre più frequentemente, con il diffondersi delle varianti Cerberus e Gryphon, tendono a modificarsi diventando sempre più simili, sul fronte clinico, a quanto avviene con l’influenza. Proprio per questo, soprattutto in questo periodo di grande diffusione dei virus influenzali, c’è il rischio di confondersi quando si presentano sintomi e segni come starnuti frequenti, naso, chiuso, tosse e mal di gola. Il dato più importante che si osserva in caso di infezione da nuove varianti è che progressivamente si osservano sempre meno i problemi più seri ai polmoni, sotto forma di polmoniti interstiziali, che hanno caratterizzato i primi tempi dalla pandemia.

Per il resto. al momento Omicron 5 riesce a mantenere ancora il primato nel numero dei contagi, ma le altre varianti si stanno “allargando” in termini epidemiologici. E soprattutto confermano le loro “differenze, tanto che l’Istituto Superiore di Sanità segnala come sia importante controllarne evoluzione e diffusione, visto che possono trasmettersi con facilità e soprattutto avere caratteristiche in termini di mutazioni che possono influire sulla possibile risposta difensiva dell’organismo.

Questo vale in particolare per Gryphon, al momento ancora poco frequente da noi (ma pur sempre presente) che secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità sarebbe la variante maggiormente portata ad evadere le risposte del sistema immunitario.

Cosa caratterizza Cerberus e Gryphon

La definizione scientifica di Cerberus è Bq.1. Il ceppo gira nel Vecchio Continente e presenta una possibile sottovariante, definita Bq.1.1. Tra le sue caratteristiche c’è la possibilità di eludere facilmente il sistema immunitario e quindi le reazioni difensive dell’organismo. Non si sa comunque se e come questo ceppo possa dare quadri clinici più seri.

Da una ricombinazione tra BA.2.10.1 e BA.2.75, ovvero quel ceppo che era stato definito Centaurus, nasce invece la variante Gryphon. Viene attentamente monitorata dalle autorità sanitarie ma non se ne sa ancora molto: stando ad alcune evidenze raccolte in laboratorio pare proprio che abbia caratteristiche che la rendono molto meno in grado di stimolare una risposta immunitaria in chi è stato vaccinato o ha contratto Covid, con un maggior rischio di reinfezione in chi ha già avuto la malattia rispetto a quanto osservato con altre sottovarianti di Omicron. In ogni caso Omicron è ancora dominante e solo osservando cosa accadrà potremo avere informazioni per il futuro.

Cosa ci ha insegnato Centaurus

Fasciarsi la testa, in ogni caso, è probabilmente inutile. Quello che si deve fare è seguire le indicazioni delle Istituzioni sanitarie, cercare di limitare i rischi di infezione, proteggersi con le misura di protezione quando si è con molte persone e procedere con le vaccinazioni e i richiami in particolare per le persone ad elevato rischio per età o per fragilità da patologie e chi vive a contatto con loro. A volte, pur se i nomi mitologici paiono preoccuparci, l’evoluzione delle varianti virali si rivela meno temibile di quanto ipotizzato.

Pensate solo a Centaurus. O sottovariante BA.2.75. Insieme ad altre due sotttovarianti caratterizzate dai numeri vicini (un po’ come accade con gli indirizzi dei palazzi, si chiama BA.2.74 e BA.2.76) parrebbe in grado di avere una fortissima diffusione, con potenziale impennata del numero dei contagi. In particolare, nel processo continuo di “riaggiornamento” dei virus che fa parte del loro naturale sviluppo nel tempo, colpisce il fatto che presenti nove mutazioni rispetto alla progenitrice Omicron 2, localizzate sulla proteina Spike.

Cosa dobbiamo aspettarci?

Insomma: come accaduto per Centaurus, anche per queste nuove varianti occorre ancora raccogliere dati che potranno aiutare a capire cosa potrà accadere. Studiarli è compito della scienza e applicare le conoscenze per la prevenzione e la cura ottimale di chi si ammala è compito dei medici. Facciamo nostra la lezione di Omicron 5, che ci ha permesso di capire come il virus possa diventare più trasmissibile e quindi potenzialmente più contagioso, con una maggior facilità di “attecchire” nell’organismo umano e di diffondersi da una persona all’altra.

Ma dal nostro punto di vista, ricordiamo che le strategie di prevenzione rimangono comunque l’arma più efficace che abbiamo per limitare i rischi. E non dimentichiamo che nei casi più seri o in soggetti a rischio i farmaci, utilizzati con la massima appropriatezza e prima possibile (siano essi antivirali specifici o cocktail di anticorpi monoclonali che si sono rivelati utili anche nei confronti di Omicron) possono consentire di affrontare in modo più efficace un’eventuale infezione.

Perché è importante completare il ciclo vaccinale per il coronavirus

La vaccinazione è l’arma preventiva più efficace per combattere l’infezione da coronavirus Sars-CoV-2. Anche se non riesce ad eliminare completamente il rischio di infettarsi, riduce il pericolo di sviluppare forme gravi dell’infezione e quindi è basilare che si proteggano soprattutto le persone a rischio di complicanze da Covid, per età o per patologia.

Ma è anche importante ricordare che servono i richiami per “risvegliare” le difese specifiche. Il nostro sistema immunitario impara a conoscere componenti specifiche del virus o attraverso l’infezione naturale o tramite la vaccinazione. Ma ha bisogno di veder riaccendere la memoria. I richiami nei confronti del coronavirus responsabile di Covid-19 servono proprio a “riaccendere” questa attenzione da parte del sistema difensivo che, quindi, riesce a reagire in modo efficiente all’eventuale contatto dell’organismo con il virus.

In questo periodo si sta sviluppando sempre di più un’immunità “ibrida”, perché figlia di una combinazione di protezione indotta dal vaccino e dall’infezione naturale. Ed è in questa fase che si inserisce nel percorso di prevenzione dalle forme gravi di infezione (il vaccino non è immunizzante ciò non evita il contagio in tutti i casi ma riesce comunque a ridurre il rischio di sviluppare forme gravi di Covid-19) il nuovo vaccino bivalente. Contiene anticorpi mirati sia nei confronti del virus originale, quello di Wuhan per intenderci, sia verso la variante Omicron 2 da cui, con successive mutazioni, si sono poi sviluppate Omicron 4 (BA.4), 5 (BA.5) e Centaurus.

La BA.5 è attualmente dominante. I vaccini bivalenti per i richiami, come ricorda il Ministero della Salute, hanno mostrato la capacità di indurre una risposta anticorpale maggiore di quella del vaccino monovalente originario sia nei confronti della variante Omicron BA.1 che delle varianti BA.4 e BA.5. Insomma, per la dose di richiamo, sia essa la terza o la quarta, sta per arrivare la possibilità di puntare su una doppia “segnalazione” della vaccinazione per il sistema immunitario, con conseguente produzione di anticorpi specifici.

Ovviamente, in partenza, i vaccini bivalenti saranno proposti prioritariamente a chi rischia di più in caso di infezione da sars-CoV-2, ovvero le persone con fragilità e gli over-60. Va anche detto, che, i termini di sicurezza, i dati fino ad oggi a disposizione non indicano specifiche differenze rispetto al vaccino originario a RNA-Messaggero.

Come si affronta il coronavirus, il ruolo dei monoclonali

Omicron 5, l’ultima variante che sta letteralmente prendendo spazio a quelle precedenti, ha come caratteristica delle mutazioni specifiche sulle proteine “Spike”. Gli anticorpi monoclonali sono molecole prodotte in laboratorio modificando gli anticorpi prodotti in riposta all’infezione naturale. La selezione avviene sulla base dell’affinità di legame fra l’anticorpo e la proteina Spike che il virus utilizza come chiave per entrare nelle cellule.

L’anticorpo blocca l’ingresso del virus, impedendone la moltiplicazione. Dalla comparsa di Omicron, l’efficacia di alcuni anticorpi monoclonali è stata messa in discussione, ma i recenti sviluppi hanno permesso degli aggiornamenti che permettono di guardare con fiducia al futuro. Con i frequenti cambiamenti del virus, si sono avute molte evidenze di variazione di attività dei monoclonali. La buona notizia è che si inizia a capire meglio quali parti della proteina spike tendono a rimanere stabili nel tempo e questo aiuta molto nei criteri di selezione dei monoclonali meno soggetti alla perdita di attività con l’evoluzione del virus.

Con i monoclonali infine è possibile anche un uso in profilassi, cioè per proteggere dall’infezione un soggetto fragile che non sia stato vaccinato o che non abbia risposto alla vaccinazione.

Come si affronta il virus, il ruolo degli antivirali

Nella sfida terapeutica al virus, ricordando che i loro effetti sono massimi nelle prime fasi dell’infezione, un ruolo importante è giocato dai farmaci antivirali diretti. Questi rispondono senza distinzioni alle varianti sin qui emerse. Gli antivirali diretti sono composti chimici di sintesi, sviluppati per bloccare specifiche funzioni nel ciclo di replica virale. Attualmente ne abbiamo tre a disposizione.

A differenza dei monoclonali, che bloccano l’ingresso del virus nella cellula, gli antivirali fermano il virus all’interno della cellula stessa. Le funzioni virali colpite dagli antivirali non sono soggette a forte evoluzione come la proteina spike, quindi per il momento tutte le varianti rimangono sensibili agli attuali antivirali, incluse le recenti linee evolutive di Omicron BA.4 e BA.5. Come detto, la somministrazione deve essere il più precoce possibile, entro 5-7 giorni dall’inizio dei sintomi.

La seconda fase dell’infezione è infatti dominata da meccanismi patogenetici indiretti e bloccare il virus diventa un beneficio clinico molto limitato o nullo. Le terapie sono tutte di breve durata, una singola somministrazione per i monoclonali, 3-5 giorni di terapia per gli antivirali. Gli esperti raccomandano però di non dimenticare mai che in prevenzione la vaccinazione è basilare.  È doveroso ribadire che le terapie non sostituiscono la vaccinazione, ma la integrano con una cura per quei casi in cui, nell’impossibilità di vaccinare o nella mancata efficacia della vaccinazione, il paziente si infetti e sia valutato a rischio di sviluppare malattia grave.

Perché preoccupa Flurona, il mix Covid-influenza

C’è preoccupazione tra gli esperti per possibile riaccensione di Sars-CoV-2 legata alla rinuncia alle misure di protezione e alle regole d’igiene, al clima sempre più rigido con necessità di stare in ambienti chiusi, alle scuole affollate come i mezzi di trasporto. I virus a trasmissione respiratoria in queste circostanze girano facilmente e la prova si ha dal trend di diffusione dell’influenza.

Detto che la diagnosi differenziale si fa con il tampone, esiste comunque il rischio della doppia infezione, la cosiddetta “Flurona”.  Si tratta ovviamente di casi non proprio frequenti: se si è vaccinati con i necessari richiami per Sars-CoV-2 e con l’antinfluenzale annuale il decorso si può considerare simile a quello di Covid e influenza presi singolarmente. Se invece non si è immunizzati per nessuna delle due o solo per il Covid, il quadro può diventare più serio soprattutto negli anziani e in chi presenta patologie croniche.

Vademecum per le cure specifiche dell’infezione da Sars-CoV-2?

Se per il trattamento dei casi più leggeri di infezione da coronavirus sono sufficienti il controllo della situazione e i farmaci sintomatici, oltre ovviamente alla vaccinazione e alle misure preventive come profilassi, quando occorre pensare a farmaci specifici da somministrare a casa o in ospedale è necessario partire prima possibile e seguire alcune semplici regole. Su questi temi le autorità regolatorie europee si sono espresse, ma caso per caso occorre individuare l’approccio ottimale. Deve essere comunque il medico a identificare i trattamenti più indicati. Ecco, in sintesi, alcune informazioni generali da tenere presenti:

Quando iniziare le cure? La somministrazione di antivirali e monoclonali deve essere il più precoce possibile. Nella seconda fase dell’infezione bloccare il virus diventa un beneficio clinico molto limitato o nullo.

Come si fanno le cure? Le terapie sono tutte di breve durata, una singola somministrazione per i monoclonali, 3-5 giorni di terapia per gli antivirali. Gli esperti raccomandano di non dimenticare mai che in prevenzione la vaccinazione è basilare.

Come agiscono i monoclonali? Gli anticorpi monoclonali sono molecole prodotte in laboratorio modificando gli anticorpi prodotti in riposta all’infezione naturale. L’anticorpo blocca l’ingresso del virus, impedendone la moltiplicazione.

Come agiscono gli antivirali? Questi farmaci fermano il virus all’interno della cellula stessa. Le funzioni virali colpite dagli antivirali non sono soggette a evoluzioni della proteina Spike:  per questo le varianti possono rimanere sensibili agli antivirali.

Mers, cos’è, cosa la provoca, come si manifesta, come si cura

In questi giorni si parla molto di influenza del cammello, in relazione ai campionati mondiali di calcio. Ma va detto che il quadro non è certo stato identificato nelle ultime settimane né va ascritto agli animali che per noi sono simbolo del deserto. Nel caso, piuttosto, sarebbero i dromedari ad entrare in gioco visto che il virus è stato identificato anche in questi animali.

A provocare questa sindrome respiratoria, come riporta l’Organizzazione Mondiale della Sanità in un documento sull’argomento, è un coronavirus. Esatto, un “parente” del ceppo che provoca Covid-19. Sul fronte scientifico, più che di influenza sarebbe quindi il caso di parlare di sindrome respiratoria del Medio Oriente o Mers. Siamo di fronte ad una malattia virale riconosciuta in Arabia Saudita nel 2012, che può esprimersi con quadri molto diversi tra loro. Proviamo a capire di cosa si tratta rispondendo a quattro semplici domande.

Quali sono le caratteristiche del virus che provoca la Mers?

Si tratta di un coronavirus. In particolare questo virus è un esempio classico di zoonosi, visto che può attaccare sia gli animali, come appunto i dromedari, sia l’uomo. Al momento ci sono stati casi accertati di infezione di questo tipo in africa, Asia ed ovviamente nel Medio Oriente. Si è visto che il virus si può trasmettere da uomo a uomo, fondamentalmente in ambito sanitari, ma in genere la trasmissione è veicolata dagli animali.

Che sintomi può determinare?

Come accade per i coronavirus, il quadro clinico può variare moltissimo da soggetto a soggetto. In certi casi l’infezione può decorrere del tutto asintomatica, ma più spesso compaiono i classici sintomi della Mers, che è in pratica una forma di polmonite virale: la persona può avere tosse, difficoltà di respirazione e vede comparire la febbre. Ci sono anche situazioni in cui i sintomi del coronavirus tendono a concentrarsi nell’apparato digerente, con presenza di diarrea.

Chi rischia di più in caso di Mers?

Come accade per le infezioni virali, chi presentano una condizione fisica non ottimale per età o per la presenza di altre patologie appare a maggior rischio di sviluppare forme più serie di Mers. Quindi occorre prestare attenzione alle persone anziane, a chi ha un sistema immunitario non perfettamente funzionante, a chi soffre di malattie croniche ad esempio a carico dell’apparato cardiovascolare, dell’apparato respiratorio o dei reni. Anche chi ha un tumore può trovarsi in condizioni di maggior fragilità nel caso si contragga l’infezione.

Come si previene e si cura la Mers?

Non ci sono vaccini per questa infezione, così come non esistono cure specifiche antivirali. Sul fronte della ricerca, si stanno studiando diversi candidati vaccini. Per quanto riguarda le terapie, si punta sostanzialmente a salvaguardare le capacità respiratorie del malato. Per quanto riguarda i rischi di contagio, va detto che oltre ad avere particolare attenzione all’igiene in caso di contatto diretto con animali conviene prestare attenzione al consumo di prodotti animali crudi o poco cotti. Ma va comunque ricordato che i casi di Mers finora osservati si sono registrati sostanzialmente in ‘area geografica ben circoscritta.

Fonti bibliografiche sulla Mers

Middle East respiratory syndrome coronavirus (MERS-CoV), World Health Organization