Malattia di Alzheimer, perché è importante riconoscerla presto

Allo studio un metodo non invasivo per identificare precocemente l'Alzheimer. Come riconoscere i primi sintomi del deficit di memoria

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Federico Mereta

Giornalista Scientifico

Laureato in medicina e Chirurgia ha da subito abbracciato la sfida della divulgazione scientifica: raccontare la scienza e la salute è la sua passione. Ha collaborato e ancora scrive per diverse testate, on e offline.

Al momento non ci sono cure specifiche causali che siano in grado di arrestare la degenerazione legata alla malattia di Alzheimer. Ma la scienza sta lavorando su strade sempre nuove per trovare risposte mirate, come dimostrano le ricerche sostenute da Airalzh Onlus mirate a cercare di rallentare il morbo di Alzheimer, diagnosticando in anticipo la malattia: più lo si individua anticipatamente, più i trattamenti – farmaceutici e non – funzionano.

L’associazione sostiene tra gli altri lo studio di Alberto Benussi, che ha  ha presentato un progetto per sviluppare – presso la Clinica Neurologica degli Spedali Civili di Brescia – un metodo unico non invasivo ed economico per identificare precocemente l’Alzheimer mediate la stimolazione magnetica transcranica (TMS) e – contemporaneamente – utilizzare la stimolazione transcranica a corrente alternata (tACS). L’obiettivo è risincronizzare i ritmi cerebrali e modulare senza effetti collaterali diverse funzioni cognitive, come la memoria. Grazie a queste nuove tecnologie, la speranza è quella di poter intervenire tempestivamente, identificando precocemente la malattia di Alzheimer.

Quali speranze per la diagnosi precoce?

Da un lato ci sono i sintomi e i segni che ci fanno capire che una persona sta perdendo qualche colpo in termini di memoria. Dall’altra, però, ci sono chiare modificazioni molecolari che si accompagnano alle prime fasi della patologia neurologica. Prima si verificano l’accumulo e l’aggregazione di beta-amiloide, che produce una disfunzione dell’attività cerebrale. Nello stesso tempo si altera la proteina Tau, fondamentale per il benessere delle cellule nervose.

Così, sul fronte delle cure, ci sono due obiettivi precisi. Ma per essere davvero efficaci, in futuro perché al momento non abbiamo indicazioni di terapie efficaci in questo senso, sarà necessario agire prima possibile, prima che il danno sia fatto. Su questo fronte va detto che i risultati dello studio DIAN (Dominant Inherited Alzheimer Network), condotto su soggetti sani e giovani portatori di mutazioni genetiche che causano e fanno esordire la malattia intorno ai 50 anni, sono estremamente interessanti.

In teoria, più di vent’anni prima della diagnosi del decadimento nel liquido che si trova vicino al midollo spinale si possono vedere ridotti valori di proteine beta-amiloide. Poi, con esami estremamente specifici, si può arrivare a individuare sia l’aumento della proteina Tau sia il deposito di amiloide. Insomma, arrivare presto, almeno in chi presenta un quadro compatibile con una predisposizione, sarebbe possibile. manca però la seconda parte del ragionamento. Come si può agire per rallentare l’evoluzione della patologia, considerando ad esempio che l’accumulo di beta-amiloide può prendere inizio già trent’anni anni prima dell’esordio clinico innestando una progressione difficile da fermare ad oggi?

Il Mild Cognitive Impairment

Per chi soffre di malattia di Alzheimer in forma avanzata può diventare un’impresa anche riconoscere i familiari. Non si salutano gli amici, non si ritrova la strada di casa, si perdono i numeri di telefono e il controllo dei propri beni. È come se sul cervello calasse una sorta di nebbia che pervade i neuroni, distaccando la persone dal mondo che la circonda.

Alla fine del percorso, questi sono i risultati della malattia di Alzheimer, descritta per la prima volta da Alois Alzheimer il 4 novembre 1906 quando il neurologo presenta a Tubingen il caso di Auguste D, una donna di Francoforte con una grave forma di demenza progressiva. Proprio la perdita della memoria, che peggiora nel tempo, è uno dei segni d’allarme più classici: in chi soffre della malattia tuttavia non ci si dimentica per anni le cose avvenute diversi anni prima, ma si perde il ricordo di quanto fatto da poco.

Quindi la persona malata dimentica il nome di chi ha davanti, lascia il gas acceso, non ricorda se ha già pranzato. Sul fronte dei disturbi, il malato tende ad allontanarsi dalla realtà, anche per le difficoltà di comunicare. Si perde la capacità di parlare normalmente con gli altri, e questo porta all’isolamento e spesso alla “rabbia” per non sapersi esprimere. inoltre, tra i segni della malattia possono esserci l’ansia, i comportamenti aggressivi, i repentini cambiamenti di umore, la ripetizione quasi ossessiva di domande cui si è già data risposta. In più possono comparire insonnia notturna, scatti muscolari incontrollati, perdita di coordinazione, stitichezza e tanti altri problemi fisici.

Il quadro clinico tende ad aggravarsi col tempo: ma, come detto,  è fondamentale porre attenzione ai primi segni che qualcosa non funziona per il meglio. Per questo la scienza si sta concentrando per capire i meccanismi del cosiddetto “Mild Cognitive Impairment”, ovvero i primi deficit della memoria, nella speranza di trovare chiavi efficaci per contrastare l’evoluzione del quadro  e come questi poi aprano la strada alla vera e propria malattia.