Quando le donne venivano rinchiuse nei manicomi

Troppo ribelli, emotive o poco materne ed ubbidienti: un tempo bastava davvero poco per finire internate

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Redazione

DiLei è il magazine femminile di Italiaonline lanciato a febbraio 2013, che parla a tutte le donne con occhi al 100% femminili.

Storte, difettate, troppo ribelli: sono le donne rinchiuse nei manicomi, costrette a subire indicibili violenze. A partire dall’Ottocento e poi durante tutto il ventennio Fascista, i manicomi sono stati luoghi di segregazione, in cui venivano rinchiuse le persone che non si uniformavano alla società dell’epoca, che erano un peso per la famiglia o che non rispettavano le regole. Soprattutto donne, che nella maggior parte dei casi non avevano nessuna malattia mentale, ma che costituivano, per qualcuno, un problema.

All’epoca l’immagine femminile era molto diversa da oggi. Nascere donna significava prima di tutto essere ubbidiente, docile, prolifica e materna. Chi aveva proprie idee, chi si ribellava, alla famiglia o al marito, veniva considerata pazza. Le ribelli, le mancine, le dislessiche, quelle che non accettavano le imposizioni del marito, quelle che si prostituivano, quelle che non volevano figli: sono tante le donne che finivano in manicomio solo per aver fatto una scelta controcorrente rispetto alla morale dell’epoca.

Queste strutture fatiscenti, che spesso accoglievano migliaia di pazienti, erano il luogo in cui curare la “devianza”. Le donne che ci arrivavano erano “rotte e storte”, come si legge nelle cartelle cliniche, e dovevano per questo essere “aggiustate”. Per prima cosa veniva effettuata una visita da parte dello psichiatra e dei medici, che avveniva semplicemente prendendo le misure e indicando le parti del corpo con una penna o delle chiavi.

Si misurava la circonferenza del cranio, delle orecchie, del naso, delle braccia, delle spalle, del torace, dello scheletro e delle ossa. Poi avveniva il responso, che di solito corrispondeva a parole come: indole degenerabile e patologica oppure eccessivamente emotiva. In seguito la persona veniva internata per 30 giorni al termine dei quali era iscritta al casellario giudiziario, un gesto che segnava la sua condanna definitiva.

Cosa avveniva all’interno delle mura dei manicomi? Solo negli ultimi anni gli studiosi sono riusciti a ricostruire, almeno in parte, le indicibili torture subite dalle donne rinchiuse in queste strutture. Sedute di elettroshock che avrebbero dovuto rendere le pazienti “docili e arrendevoli”, bagni nell’acqua ghiacciata, entrambi toccati alla poetessa Alda Merini. A questi aggiungiamo lobotomie, come accaduto a Rosemare Kennedy, della celebre dinastia statunitense. Il più delle volte i “malati” venivano legati al letto oppure a termosifoni o finestre, rimanendo alla mercè di chiunque e preda di indicibili violenze.